Un soldato israeliano contro l’occupazione
di Ariel Bernstein
Incontro con Gli asini
Quelle che ci ha rilasciato sembrano le dichiarazioni di un veterano, ma Ariel Bernstein, che oggi ha trent’anni, ne aveva solo 18 quando ha iniziato a prestare servizio nella “Nachal”, una delle brigate di fanteria dell’esercito israeliano, e lo ha fatto per tre anni, tra il 2012 e il 2015. Da cinque anni è attivista di “Breaking the Silence”, organizzazione israeliana che dà voce a militari e veterani di guerra che vogliono “rompere il silenzio” intorno alle missioni dell’Idf, le Forze di difesa israeliane. Ha appena concluso una tesi presso il dipartimento di Storia e culture dell'Università di Bologna sulla memoria del Mughrabi, un quartiere musulmano della parte vecchia di Gerusalemme evacuato e raso al suolo durante la Guerra dei sei giorni.
Noi e gli altri
Partiamo dal ruolo della comunità internazionale nel consentire l'occupazione e il dominio della popolazione palestinese da parte degli israeliani attraverso l'esercito e gli insediamenti. Per capire questa situazione – possiamo chiamarla apartheid oppure occupazione – comincio da un racconto personale. Ho combattuto a Gaza nel 2014. Senza entrare nei dettagli, è stato un evento che ha definito e cambiato il corso della mia vita perché da allora in poi ho dovuto fare i conti con quello che nel linguaggio scientifico viene definito disturbo post-traumatico. Trovarmi a fare il soldato nell’esercito israeliano a Gaza mi ha causato danni morali e molti problemi di salute mentale.
L’essere stato parte della violenza a un livello che non avevo mai visto e che non avrei mai immaginato di vedere mi ha spinto a diventare attivista contro l’occupazione israeliana e più in generale per la difesa dei diritti umani.
Il quartiere a Gaza in cui siamo stati per due settimane, Beit Hanun, lo abbiamo lasciato solo dopo averlo completamente distrutto. Una città ridotta in cenere. Le rovine che abbiamo lasciato dietro di noi mi hanno ricordato quello che rimase di Varsavia alla fine della seconda guerra mondiale.
A Beit Hanun ho perso persone che mi erano vicine e ho visto devastazione e violenza. Tornando in Israele siamo stati accolti da buoni cittadini e da famiglie che volevano renderci felici e fare festa. Ci accoglievano con regali, cibo, musica. E io ho pensato, che diamine, sembra un carnevale! Lasciavamo qualcosa che per me era stato spaventoso, anche se non sapevo ancora dargli una forma chiara, e tutti volevano che fossi felice. Una persona della mia unità era appena morta, un amico del liceo era appena morto e probabilmente avevamo ucciso moltissime persone. Abbiamo ucciso un sacco di persone, sapete, non sappiamo nemmeno esattamente quante.
Non mi sembrava normale che le persone ci abbracciassero e ci facessero regali. Eravamo tornati alla normalità, ma non avevamo risolto nessun problema. Avevamo raggiunto un cessate il fuoco, ma le tensioni che avevano portato a quella guerra erano rimaste le stesse se non addirittura peggiorate. La crisi umanitaria, il conflitto politico, la presenza di Hamas… tutte le questioni che esistevano prima di quel conflitto erano ancora lì, tutte presenti e la gente, invece, voleva tornare alla normalità. È questo uno degli aspetti che mi ha spinto a diventare un attivista, perché era chiaro che la situazione non era per niente normale da molti punti di vista.
Tornando al ruolo della comunità internazionale, in quel periodo, era il 2015, ero alle prese con gli strascichi della guerra e ricordo che era in corso la campagna elettorale di Hillary Clinton per la nomination democratica in lotta con Bernie Sanders. La Clinton tenne un comizio all’Aipac, l’American Israel Public Affairs Committee, una delle più potenti lobby americane per il sostegno allo stato d’Israele. Anche se all’epoca non ero così politicizzato, disse qualcosa che mi ferì profondamente: sosterremo sempre Israele qualunque cosa accada, ciecamente. Forse non ha usato la parola “ciecamente”, ma il succo di quello che disse era sostanzialmente questo. Io ero appena uscito da quella guerra. E stavo affrontando i miei fantasmi. Hillary Clinton non avrebbe mandato i suoi figli a combattere a Gaza o a invadere le case dei palestinesi in Cisgiordania. E diceva che qualunque cosa facessimo, loro avrebbero continuato a sostenerci. In quel momento mi è stato chiaro che stavo pagando il prezzo del fatto che non eravamo ritenuti responsabili della realtà che avevamo creato.
Non penso che potremo continuare con questo ciclo infinito di guerre, con queste infinite invasioni di Gaza, con queste infinite occupazioni militari che diventano ogni anno più violente. In quel discorso della Clinton trovavano giustificazione tutte le assurdità che abbiamo creato in quella porzione di terra, a partire dagli insediamenti e dall'intero sistema di apartheid. All'improvviso mi risultò chiaro come le sue parole avevano un’influenza diretta sulla mia vita, perché ero io quello che era stato mandato a compiere le missioni che mi avevano ridotto in quello stato.
Cisgiordania
La maggior parte del servizio che ho reso nell’esercito israeliano è stato in Cisgiordania. Questa è la Cisgiordania: un territorio punteggiato da centinaia di insediamenti, alcuni piccolissimi, fino a cinque persone, nel mezzo al territorio palestinese. L’esercito israeliano deve compiere sforzi immensi per proteggere questi insediamenti. A volte è necessario essere offensivi per proteggere. Se ti viene affidato un piccolo insediamento, bisogna “andare fuori” piuttosto che “aspettare”. Ti insegnano che in alcune occasioni “aspettare” può essere troppo tardi. Dobbiamo mostrare sempre la nostra presenza nei villaggi. Le missioni sono sempre offensive: forzi la porta di una casa, blocchi un villaggio, controlli i documenti… Azioni che creano una tensione costante. Sei a contatto con i palestinesi nei loro luoghi. L’obiettivo è “prenderli” prima che arrivino agli insediamenti. In Cisgiordania quasi tutto quello che devi fare in quanto soldato è servire gli insediamenti. Insediamenti che anche per la legge israeliana sono illegali.
Prima di entrare a Gaza ero un soldato e un comandante. Partecipai a una grande operazione chiamata Brother’s Keeper, “Custode di mio fratello”. Un’operazione spesso dimenticata che precede quella denominata Protective Edge,“Margine protettivo”, la guerra di Gaza del 2014.
Quello che precedette l’operazione Brother’s Keeper è che Hamas rapì tre coloni adolescenti da un insediamento chiamato Talmon. Quest’azione provocò la reazione dell’esercito che lanciò una grande operazione in tutta la Cisgiordania per cercare questi ragazzi, che poi furono trovati morti. I loro corpi sono stati ritrovati nella zona di Hebron. Ci è stato detto che dovevamo cogliere questa opportunità perché ci forniva una sorta di legittimità per portare avanti una grande operazione armata.
Dovevamo cercare qualsiasi cosa sospetta ma anche dimostrare alla popolazione palestinese che avevano commesso un errore. Cogliere l'occasione per entrare in più case, cercare indizi, osservare tutto quanto fosse possibile osservare, non solo le eventuali attività illegali in corso. In sostanza non stavamo cercando solo i ragazzi, stavamo cercando tutto ciò che avrebbe potuto essere sospetto. In quei giorni c'erano una marea di soldati in tutta la Cisgiordania. E praticamente entravamo in un villaggio diverso ogni sera andando di casa in casa, cercando qualsiasi cosa spesso senza informazioni specifiche.
Ero un comandante ed era una delle prime volte che svolgevo davvero questo ruolo sul campo, una delle prime volte che da quel ruolo incontravo la popolazione civile. Ricordo un uomo che era in giro dopo il coprifuoco. Abbiamo fermato la sua macchina e gli abbiamo preso le chiavi della vettura. Era davvero spaventato.
Ricordo le famiglie nelle case dove entravamo e i bambini che piangevano. E lo facevamo ogni notte. Ho iniziato a pensare tra me e me: mi dicono che sono qui per scopi protettivi, ma in questa situazione mi sento come se fossi l'aggressore. Sto causando traumi alle persone. Questo non può essere il modo più efficace di procedere. Entriamo nelle case delle persone, umiliamo le famiglie, facciamo quello che vogliamo… E cominciai a mettere in discussione questo tipo di azioni. Ma io ero il comandante. Dovevo essere in grado di guidare questo piccolo gruppo di soldati.
Una volta mi trovavo in una casa palestinese, nessuno di noi parlava l'arabo, e avevo davanti una famiglia numerosa con un uomo e una donna anziani. L'uomo mi stava chiedendo di poter prendere la sua medicina. Ma io non lo capivo. Quindi gli dicevo di star zitto. A un certo punto ha avuto una specie di attacco davanti a me. È stato impressionante. Cominciò a schiumare dalla bocca. Abbiamo chiamato l'ambulanza, ma era così pieno di soldati e posti di blocco che c’è voluto molto tempo prima che arrivasse. Io mi sentivo in colpa, la famiglia piangeva e mi accusava di uccidere i loro anziani. Rimasi scioccato da questo evento.
Adesso mi è chiaro, mi sono detto, quello che sto facendo qui non ha senso. Tutto questo è una cazzata. Ma proprio a quel punto, Hamas cominciò a lanciare razzi da Gaza. Così ci dicono che probabilmente saremmo andati a Gaza. Mi sentivo in gabbia: da un lato mi sembrava tutto assurdo, dall’altro mi sentivo responsabile dei soldati del mio gruppo. Eravamo alla vigilia di un combattimento vero e proprio e saremmo stati in pericolo. Mi chiedevo: come faccio a dire loro che non credo in quello che stiamo facendo? Cosa faccio se gli succedesse qualcosa? Mi sarei sentito male per il resto della mia vita.
Sono arrivato a Gaza con tutte queste domande nella testa. E quando ne sono uscito, ne avevo davvero abbastanza. La pressione era salita di molti livelli. Le questioni e le immagini che mi giravano per il cervello a Gaza insieme all’esperienza in Cisgiordania si sono trasformati in qualcosa di molto oscuro. E qualcosa dentro di me si è semplicemente spento.
Era un po' come se mi stessi comportando come un robot. Se vuoi sopravvivere in quelle situazioni, smetti di pensare.
La risposta al 7 ottobre
Voglio essere sincero. Dopo quello che ha fatto Hamas, penso che fosse inevitabile che Israele sfoderasse gli artigli per difendersi con una qualche forma di operazione militare. Potremmo discutere sulla legalità anche dell’intera occupazione e dell’intera situazione. Ma diciamo che se mettessimo da parte queste domande per un momento, se accettassimo la legittimità di Israele e conoscessimo cosa è avvenuto durante l'attacco, allora una reazione avrebbe una sua giustificazione.
Il problema è che c’è una differenza tra avere una giustificazione per reagire e dire che tutto ciò che fai è legittimo. C'è un’enorme differenza. Dovrebbero esserci delle linee rosse che non è possibile attraversare. Il punto è che Israele ha fallito miseramente nel proteggere i suoi cittadini in un modo in cui non molti paesi nella storia moderna hanno fallito. Con le organizzazioni terroristiche che entrano nelle case delle persone, bruciandole vive, rapendo i bambini, strappandoli alle madri, mettendoli nei tunnel, persone rapite dai loro letti… Questo è un disastro completo. Lo stato d’Israele ha miseramente fallito nel garantire la sicurezza alla sua gente.
È un fallimento avvilente e niente può davvero porvi rimedio. L’istinto della leadership israeliana ma più in generale del paese, il nostro istinto, è quasi sempre quello di infliggere più dolore possibile per dare una lezione ai nostri nemici. Da quando mi ricordi è sempre stato più o meno così. Quando siamo sotto attacco o ci sentiamo minacciati, la nostra strategia è infliggere così tanto dolore e devastazione da impartire al nostro avversario una lezione che non dimenticherà mai.
Ebbene, nella mia vita, nessuno mi ha mai dimostrato che questo modo di ragionare sia efficace. Perché quanta più violenza causiamo, più odio generiamo, più intensa è l’aggressione, più tutto questo determina instabilità e insicurezza. Se questo modo di agire avesse portato più sicurezza non saremmo arrivati al 7 ottobre. Non è solo Netanyahu, è tutta la società che ha adottato questa mentalità e non capisce che le bombe e l'esercito non risolveranno mai nostri problemi. E tutto quello che abbiamo perso con il 7 ottobre non ritornerà, né sarà impedito che in futuro ricapiti ancora con l’uso delle bombe e con la devastazione totale. Abbiamo bisogno di altre soluzioni.
Reagiamo d’istinto, pensiamo che se non infliggiamo loro una lezione che non dimenticheranno e che inciderà nella vita dei loro figli e dei loro nipoti ci esporremo a rischi maggiori. Questo tipo di equazione non viene mai messa in discussione. Non viene mai criticato questo modo di pensare. È un fatto su cui non è consentito discutere in Israele.
Se dici il contrario, anche se la realtà ti dà ragione, sei considerato un ingenuo o un traditore o un sostenitore di Hamas. Sostengono che c'è solo un modo plausibile per sistemare le cose. E si lanciano sempre più bombe uccidendo sempre più persone.
In questo momento il dolore è immenso e il fallimento da parte del governo è deprimente. Sicurezza, orgoglio nazionale e tutte le stronzate militariste: questo è tutto il loro programma. Un programma che ha fallito miseramente. Non sapendo costruire la sicurezza, l’unica cosa che hanno da offrire è la vendetta. Non hanno una visione per il futuro. Non sono disposti a parlare di come potrebbe essere il futuro.
Tutto ciò che hanno da offrire è la guerra perché è tutto ciò che conoscono. È tutta la loro educazione, tutta la loro retorica. E finisce che, indipendentemente da dove si guardi la questione, la soluzione in Israele è sempre solo quella di intensificare ulteriormente la guerra. E tutto ciò che è contrario alla guerra nel migliore dei casi è considerato ridicolo, nel peggiore, un tradimento.
E penso che sia difficile persino capire perché facciamo quello che facciamo a questo punto, perché la guerra sembra diventata uno stato dell'essere.
Controlli, arresti, uccisioni. È questo quello che siamo diventati. È quello che senti al telegiornale, la mattina. È quello che molti vogliono vedere. Non sappiamo nemmeno più da dove è iniziato tutto questo e come andrà a finire. È semplicemente la realtà.
Società civile e organizzazioni pacifiste
Sono diverse le organizzazioni pacifiste attive nella società civile israeliana. “Breaking the Silence”, in cui sono attivista anch’io, da diversi anni, che dà voce a militari e veterani che appunto vogliono “rompere il silenzio” intorno alle missioni dell’esercito israeliano; “B'Tselem”, Centro d'informazione israeliano per i diritti umani nei territori occupati; “Yesh Din”, Volontari per i diritti umani, che si occupano invece di raccogliere e diffondere informazioni affidabili e aggiornate sulle violazioni sistematiche dei diritti umani nei territori palestinesi occupati. Organizzazioni che cercano di supportarsi e di collaborare in vista di fini comuni.
Io sono stato un ricercatore per circa quattro anni e ho visto come ognuna di queste organizzazioni abbia un database costruito in anni di lavoro, ma con diversi tipi di informazioni. Abbiamo molte informazioni provenienti da persone sul campo, siano essi attivisti o residenti palestinesi dotati di strumentazioni per registrare, “Yesh Din” ad esempio raccoglie informazioni di ordine giuridico. Ciascuno di questi database può aiutare gli altri a completare il quadro.
A proposito di database, ma sul fronte opposto, non so se abbiate mai sentito parlare di “Blue Wolf”, il programma che Israele usa per spiare i palestinesi nei territori. Il programma di sorveglianza è abbastanza recente e coinvolge in parte una tecnologia per smartphone chiamata “Blue Wolf” che cattura attraverso le foto i volti dei palestinesi e li abbina a un database di immagini così vasto che è stato descritto come una sorta di facebook di palestinesi segreto ad uso dell’esercito israeliano. L'app installata sui telefoni dei soldati lampeggia in diversi colori per avvisarli se una persona deve essere detenuta, arrestata o lasciata libera.
Per costruire il database utilizzato da “Blue Wolf”, i soldati sono stati coinvolti in una sorta di gara per fotografare i palestinesi, compresi bambini e anziani, con premi per il maggior numero di foto raccolte da ciascuna unità. Il numero totale delle persone fotografate non è chiaro ma, come minimo, si aggira sulle migliaia. Oltre a Blue Wolf, l’esercito israeliano ha installato telecamere per la scansione del volto nella città di Hebron per aiutare i soldati ai checkpoint a identificare i palestinesi ancor prima che presentino le loro carte d’identità. Una rete più ampia di telecamere a circuito chiuso, soprannominata “Hebron Smart City”, fornisce il monitoraggio in tempo reale della popolazione della città e, secondo alcuni testimoni, a volte può vedere nelle case private. In risposta alle domande sul programma di sorveglianza, le Forze di difesa israeliane (IDF) hanno affermato che “le operazioni di sicurezza di routine” fanno “parte della lotta contro il terrorismo e degli sforzi per migliorare la qualità della vita della popolazione palestinese in Giudea e Samaria” (Giudea e Samaria è il nome ufficiale israeliano della Cisgiordania), confermando di fatto l’esistenza di un vasto programma di sorveglianza della popolazione palestinese attraverso l’impiego di queste tecnologie di ripresa, archiviazione e costruzione di database.
Un’altra esperienza interessante che penso valga la pena conoscere è quella di un'organizzazione chiamata “Emek Shaveh”, una ONG di archeologi contro l'occupazione che pubblica resoconti sugli abusi e sull'uso dell'archeologia da parte dello Stato israeliano. Questioni di archeologia e diritti umani, diciamo. Ci sono molti soldati che cercano di garantire le preghiere dei coloni che entrano nei villaggi palestinesi col pretesto che in quel villaggio ci sono le spoglie di qualche personaggio importante, un “giusto” o una figura storica o biblica sepolta tra le case dei palestinesi.
Si tratta di azioni mai supportate da alcuna prova archeologica. Quasi mai collegate a qualsivoglia tipo di tradizione. Voci secondo cui, che ne so, in quel villaggio palestinese vicino a Hebron, Halchul, è sepolto il profeta Nathan. Oppure che nel Kif el-Khares, vicino a Nablus, c'è Joshua ben Nun, il Giosuè dalla Bibbia.
Conosco dei soldati che come missione dovevano blindare un villaggio palestinese, dire a tutti di tornare nelle loro case, e accompagnare 100 coloni a pregare tutta la notte nel centro del villaggio. Il che significa che gli abitanti di quel villaggio per molte ore non potevano uscire e non potevano rientrare nella loro casa. Una cosa miserevole e ripugnante.
E così, ad esempio, mentre facciamo ricerche su questo problema, abbiamo la possibilità di confrontarci con gli archeologi di “Emek Shaveh”.
Gran parte del tipo di informazioni di cui dispone ciascuna organizzazione è molto importante. Ed è davvero utile creare una visione ben a fuoco delle cose che stiamo ricercando.
Riguardo alla censura, la situazione è decisamente peggiorata. Ma c’è ancora un’enorme differenza tra ebrei e arabi in Israele per quanto riguarda la repressione. Dal 7 ottobre sono molti i palestinesi-israeliani che sono stati arrestati e minacciati per aver mostrato solidarietà ai loro connazionali a Gaza. Anche se scrivessero solo di prendersi cura dei bambini di Gaza, ciò potrebbe metterli a rischio di essere licenziati, minacciati o addirittura arrestati. Sta anche diventando pericoloso parlare come israeliani di sinistra, ma abbiamo una certa protezione grazie alla nostra ebraicità. Le proteste contro la guerra in Israele oggi vengono trattate in modo estremamente aggressivo e violentemente interrotte dalla polizia. Ma è nostro dovere parlare.
Esseri umani e istituzioni
Quando il sistema supporta e aiuta gli individui violenti, consentirà loro di fare ciò che vogliono e aprirà la strada alla normalizzazione della violenza. Quando vediamo all’opera una persona violenta, sia esso un soldato o un colono, è da criticare, ma è più grave quando il sistema copre questi crimini. Che tipo di norme stiamo permettendo si radichino? Che tipo di crimini stiamo più o meno consapevolmente coprendo?
Se i coloni escono dalle loro case e picchiano un pastore palestinese che passa lì vicino e ci sono soldati che stanno a guardare, non ho problemi a dire che sono persone terribili. Anche se non partecipano, ma stanno semplicemente a guardare. Il punto però è quali sono i comandi che hanno ricevuto. Quali sono le regole che gli vengono impartite dai loro ufficiali, dall’istituzione militare. È soprattutto lì che dobbiamo mettere il nostro impegno.
Non se ne parla mai abbastanza, ma dal primo giorno di guerra vedo ebrei e arabi che continuano a lavorare insieme. La gente preferisce il tipo di notizia che polarizza le opinioni che mette in scena la lotta del bene contro il male. Bianco e nero. Qualcosa di semplice. Ma più ti avvicini, più vedi le iniziative sia in Cisgiordania che all'interno della linea verde. Fra queste persone, ad esempio, un uomo chiamato Maoz Inon, i cui genitori sono stati assassinati da Hamas, il 7 ottobre, nel loro letto. Da allora non c’è giorno che Maoz Inon non prenda la parola per sostenere la necessità della convivenza e di uno Stato palestinese. Consiglio vivamente di seguire il suo lavoro. Il suo nome è Maoz Inon.
L'iniziativa più bella e struggente è il Family Circle, un'organizzazione di base di famiglie palestinesi e israeliane che hanno perso familiari vicini a causa del conflitto. Dal 7 ottobre organizzano moltissimi eventi. E purtroppo molte persone si sono unite a loro perché in questi mesi hanno perso parenti vicini.
Il dubbio che hanno la forza di trasmettere, se li si sa ascoltare, è che potrebbero esserci esseri umani e brave persone da entrambe le parti; che potrebbero esserci modi in cui tentare di parlare di convivenza; che potrebbe esserci dolore da entrambe le parti; che potrebbero esserci persone in lutto da entrambe le parti.
Ognuno può avere il suo modo di leggere la storia. Ma la gran parte del sentimento, del tono, delle narrazioni che sento qui in Europa, anche da sinistra, alimenta la violenza. In un periodo come questo, in cui comunque c'è così tanta violenza, penso sia davvero fondamentale amplificare le voci di speranza. Alcune storie mettono in discussione l'idea che una parte o l'altra non sia umana. Concentriamoci sull’umanizzarci l’un l’altro. Tutto il resto passa in secondo piano.
Strilli
Sicurezza, orgoglio nazionale e tutte le stronzate militariste: questo è tutto il loro programma. Un programma che ha fallito miseramente. Non sapendo costruire la sicurezza, l’unica cosa che hanno da offrire è la vendetta. Non hanno una visione per il futuro. Non sono disposti a parlare di come potrebbe essere il futuro.
Non se ne parla mai abbastanza, ma dal primo giorno di guerra vedo ebrei e arabi che continuano a lavorare insieme.
Da quando mi ricordi è sempre stato più o meno così. Quando siamo sotto attacco o ci sentiamo minacciati, la nostra strategia è infliggere così tanto dolore e devastazione da impartire al nostro avversario una lezione che non dimenticherà mai. Ebbene, nella mia vita, nessuno mi ha mai dimostrato che questo modo di ragionare sia efficace.
Mai indifferenti