Una lettera di Erin Mazursky, ebrea attivista statunitense
Le voci contro lo sterminio di massa non sono abbastanza forti. Abbiamo bisogno di una comunità ebraica diffusa che viva la consapevolezza che la liberazione della Palestina è strettamente legata alla nostra.
Nel 2004, nell’autunno del mio secondo anno di università e dopo essere stata attiva nelle comunità ebraiche fin dall’infanzia, ho silenziosamente rinunciato alla mia identità ebraica e ho cessato di partecipare alle attività ebraiche del mio campus. È accaduto dopo un anno di immersione e approfondimento della storia di Israele e dell’occupazione, quando sono arrivata alla conclusione che non ero in grado di conciliare quelli che ritenevo essere i miei valori ebraici e ciò che veniva fatto ai palestinesi in nome degli ebrei. Mi sono sentita tradita dalla mia educazione ebraica, condizionata e incapace di affrontare la complessità.
Per 18 anni me ne ero stata a guardare i rabbini che predicavano davanti alla bandiera americana e a quella israeliana, segno dell’incrollabile sostegno della comunità a un governo sempre più dispotico, intonando preghiere per Israele. Ho capito che non potevo più farlo. Ho pensato che mi fosse necessario lasciare la comunità.
Con il passare degli anni, gradualmente mi sono stancata di fingere di non avere un’appartenenza ebraica, di nascondere quella parte di me e rimanere in silenzio. Il mio ebraismo ha abbracciato il tikkun olam (il concetto ebraico di “riparare il mondo”). Ne ho fatto lo scopo della mia vita. Il mio ebraismo è profondamente legato alla storia ebraica e alle nostre traversie, ed è grazie a questo che sono fermamente contraria alla violenza e all’occupazione israeliana.
Quando nel 2014 è scoppiata la guerra di Gaza, 10 anni dopo il mio abbandono, non avevo più voglia di dire nulla e mi sentivo sola nel mio ebraismo. Ho scritto un’e-mail di “coming out” (per la seconda volta) alla mia comunità più ampia, ma questa volta denunciando la guerra in quanto ebrea con un credo politico che troppi ebrei definirebbero autolesionista, antisemita e vergognoso. Una delle persone amiche a cui quella e-mail era diretta si stava già muovendo per organizzarsi insieme a un gruppetto di altri ebrei che la pensavano allo stesso modo. Di colpo, non ero più sola.
Ho lavorato per mesi con questo gruppo, ospitando sessioni strategiche a casa mia, organizzando eventi e partecipando ad azioni. Questo lavoro ha portato alla fondazione di If Not Now (Se Non Ora), un movimento di giovani ebree ed ebrei americani che lavorano per porre fine al sostegno degli Stati Uniti all’occupazione. A 29 anni ero considerata un’anziana nel gruppo. Quindi, pur essendo per me una base politica, non ho continuato a parteciparvi attivamente.
Qualche anno dopo, mia moglie e io siamo entrate nella congregazione di un’incredibile sinagoga non lontana dal nostro appartamento di Brooklyn, alla ricerca di una casa ebraica e di una comunità in cui crescere la nostra famiglia. La mia speranza era che, in questa sinagoga, mio figlio non dovesse sentirsi diviso tra la sua identità ebraica e la politica israeliana. Amiamo il rabbinato queer, i valori progressisti, le persone che abbiamo incontrato, soprattutto gli altri genitori queer. Ci piace che il clero parli apertamente di tutte le questioni che anche noi sentiamo con passione e che aiuti la comunità ad agire. Ma mi sto arrovellando per capire se posso davvero farne la mia casa.
Domenica 8 ottobre 2023, il giorno dopo i feroci, impensabili e disumani attacchi di Hamas contro migliaia di civili israeliani, la rabbina capo della nostra sinagoga ha parlato del conflitto in un’e-mail alla comunità. Ha espresso, come deve fare una leader religiosa, profondo lutto, panico, shock, tristezza per le orribili e indifendibili uccisioni e rapimenti. Ha giustamente deplorato Hamas. Ma in quel messaggio ha anche invitato a sostenere Israele in modo incondizionato. Proprio quella mancanza di riserve che vent’anni fa mi ha indotta ad accantonare una parte centrale di me.
Ho parenti e amici in Israele. So che nessuno è rimasto indenne dalle azioni violente di Hamas. Non c’è mai una scusa per il terrorismo.
Ma che dire del terrore, della disumanizzazione sistematica che l’esercito e il governo israeliano hanno imposto ai palestinesi per decenni?
Non voglio, non posso stare dalla parte del governo autoritario e di destra di Israele, così come non potevo, non volevo stare dalla parte del governo statunitense nel 2003 durante le invasioni di Iraq e Afghanistan. Il mio attivismo non mi ha reso meno americana. Perché il mio attivismo contro le politiche disumane di Israele continua a mettere in discussione il mio ebraismo?
Siamo un popolo generoso, riflessivo e ricco di valori. Ma ora sto mettendo in dubbio la capacità di questa comunità di mantenere le distinzioni e di agire in base ai nostri valori. Sto mettendo in dubbio la sua capacità di accogliere persone come me, alla disperata ricerca di conforto e di una comunità in cui possiamo dire no alla morte di Israele, ma possiamo anche mettere in discussione e persino opporci alle azioni del governo israeliano, che commette atti di violenza in nome del popolo ebraico. Hamas è un’organizzazione terroristica. Mi aspetto che uccidano. Non rappresentano tutti i palestinesi. Mi aspetto di più dal mio popolo.
Siamo di fronte alla minaccia di una pulizia etnica a Gaza, mentre i carri armati si schierano pronti alla vendetta. Dove sono le nostre voci ora? I nostri valori ebraici non ci dicono che la violenza non dovrebbe generare violenza, che spianare Gaza non riporterà in vita i morti, non sconfiggerà Hamas né porterà la pace? L’unica cosa che porterà la pace è mettere al centro l’umanità dell’altro e, mentre il conflitto è complicato, questo alla fin fine è molto semplice. Oggi non saremmo a questo punto se avessimo costruito sistemi che riconoscessero l’umanità dei palestinesi invece di negarla.
Le azioni che Israele sta compiendo saranno una macchia sul nostro popolo per i secoli a venire.
Finora sembra che gran parte della comunità ebraica approvi questo omicidio di massa. E se non lo fa, di certo la sua voce non è abbastanza forte. La maggior parte di noi è stata messa a tacere da una comunità ebraica maggioritaria che sembra credere che possiamo trascurare i nostri valori quando si tratta di palestinesi. Quelli di noi che dissentono possono avere conversazioni a due, come ho fatto io questa settimana. Ma dove posso trovare una comunità che viva la convinzione che la liberazione della Palestina è pienamente legata alla nostra?
Sono grata per il lavoro che If Not Now continua a fare per opporsi alla violenza israeliana, e mi unisco alle loro azioni politiche come posso. Ma i suoi leader sono sempre più giovani mentre io, per fortuna, invecchio. Eppure sono ancora alla ricerca. Non voglio che il trauma collettivo del nostro popolo continui a essere una scusa per infliggere orrori e traumi ad altri. Non era questo lo scopo originario dell’esperimento sionista.
Voglio celebrare un lutto collettivo. Voglio costruire insieme spazi di guarigione. Voglio attivarmi attraverso la nostra tristezza e la nostra perdita. Voglio che il mio disaccordo con il governo israeliano non sia visto come una minaccia esistenziale per tutti gli ebrei. Possiamo parlare di come una complicità che non si fa domande sia per me un problema esistenziale? Possiamo vedere il male di Hamas e continuare a vedere l’umanità dei palestinesi? Possiamo non essere d’accordo con i sistemi di “difesa” messi in atto da Israele – occupazione, blocchi, apartheid, accaparramento delle terre – pur concordando sul fatto che gli israeliani hanno il diritto di essere al sicuro?
Ho scritto una versione simile di questo articolo in forma di e-mail al mio clero, chiedendo se ci fosse un posto per me nella loro sinagoga, dato che non posso rispondere all’appello della rabbina a “stare dalla parte di Israele” (anche se posso stare con gli israeliani, così come con i palestinesi). C’è spazio per affermare il mio ebraismo lì? Forse il mio io più maturo si rende conto che la cosa più responsabile che posso fare è rendere la mia comunità più forte, invece di scivolare nell’insignificanza. Come nove anni fa, forse questo spazio ha solo bisogno di essere creato, evoluto, ampliato per le persone di tutte le età.
Uno dei principi fondamentali dell’Ebraismo Riformato è quello di mantenere la complessità e di mettere in discussione. Non abbiamo definizioni ristrette di bene e male, paradiso o inferno. Rabbini e oracoli discutono le sfumature della condizione umana da millenni. È una dolorosa ipocrisia che proprio ciò che mi tiene ancorata alla mia fede – il permesso di fare domande, il comandamento di cercare la giustizia, il valore di riconoscere l’umanità nelle diverse sfumature – siano le stesse cose che in questo momento mi alienano.
In mezzo al caos in cui la comunità ebraica si è ritrovata in questa settimana e all’escalation di crimini d’odio antisemiti (e antipalestinesi) in tutto il Paese, la mia rabbina ha risposto rapidamente alla mia domanda sul mio posto nella comunità di cui è la guida. “Grazie per questa lettera incredibilmente sentita, bella e toccante”, mi ha scritto. “Non so se siamo d’accordo al 100%, ma siamo molto più vicine di quanto non sia sembrato questa settimana… So che qui c’è posto per te”. Le credo.
Attiviste di If Not Now hanno tenuto un Kaddish del lutto il 9 ottobre 2023 al JFK Memorial Park di Boston per piangere i palestinesi e gli israeliani uccisi negli ultimi giorni.
L’articolo è apparso su Waging non violence il 17 ottobre 2023
Traduzione di Margherita Giacobino
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