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Come salvare Israele dalla solitudine

di Gianluca Mercuri



«Se siete amici di Israele, questo è un momento profondamente scomodo».





L’Economist dedica allo Stato ebraico la copertina — titolo: «Israele sola» —, l’editoriale principale, uno speciale che approfondisce l’andamento della guerra. Lo fa in modo letteralmente amichevole, senza critiche sferzanti, con consigli saggi, come sempre cercando una pars construens fatta di salvabile da salvare ma non solo, una sorta di ottimismo della ragione che anche nelle tragedie porta a individuare gli spiragli. Un approccio diverso da un altro modo di concepire l’«amicizia», che è la difesa per partito preso, il nascondimento dei misfatti, il buttare la palla in tribuna, che vuol dire evitare di affrontare il punto vero: il diritto non può che essere speculare, le vite contano tutte, i popoli sono uguali nell’aspirazione alla libertà.

«Esiste ancora una via d’uscita dall’inferno di Gaza», è l’esordio del settimanale. La via d’uscita consiste in un cessate il fuoco che cominci a sbloccare la situazione, che fermi la carneficina di civili palestinesi, che liberi gli ostaggi israeliani. Che porti a un ridimensionamento sostanziale di Hamas, se non proprio alla «vittoria totale» predicata da Benjamin Netanyahu, e a quel punto «dalle macerie potrebbero iniziare i colloqui per una soluzione a due Stati». È quello a cui lavorano gli americani da mesi, col tentativo — proprio in queste ore — di inserire la tregua in una Risoluzione Onu. Ma il negoziato a Palazzo di Vetro — con russi e cinesi che si mettono di traverso — è difficile quanto quello in Qatar, in cui Hamas e Israele si parlano attraverso i mediatori. C’è una via d’uscita, ma quella via può restare chiusa, il negoziato può restare bloccato.

In questo caso, è il ragionamento amichevole, cioè denso di sollecitudine ragionata e preoccupata, a restare bloccata sarebbe anche Israele, «bloccata nella traiettoria più cupa dei suoi 75 anni di esistenza, caratterizzata da un’occupazione senza fine, da una politica di destra dura e dall’isolamento. Oggi molti israeliani lo negano, ma prima o poi la resa dei conti politica arriverà. E determinerà non solo il destino dei palestinesi, ma anche la sopravvivenza di Israele nei prossimi 75 anni».

Occupazione, destra dura, isolamento, resa dei conti. I concetti che i finti amici di Israele nascondono. Perché «se siete amici di Israele, questo è un momento profondamente scomodo», scomodo come le verità da preferire ai nascondigli. La prima è questa: «In ottobre Israele ha lanciato una guerra giustificata di autodifesa contro Hamas, i cui terroristi hanno commesso atrocità che minacciano l’idea di Israele come terra in cui gli ebrei sono al sicuro. Oggi Israele ha distrutto forse la metà delle forze di Hamas. Ma, in modi importanti, la sua missione è fallita».

«Missione fallita», la guerra sta fallendo. In questi modi importanti: a Gaza, la «riluttanza» israeliana a fornire aiuti «ha portato a una catastrofe umanitaria evitabile» e i civili uccisi sono oltre 20 mila, prendendo per buono il calcolo che vuole che un terzo dei morti siano combattenti di Hamas. In più, Israele non ha un piano credibile e accettabile per il dopo, quello che chiedono disperatamente gli americani. Il governo di Netanyahu dice no all’Autorità palestinese e no a una forza internazionale. Così, «l’esito più probabile è una rioccupazione militare. Se si aggiunge la Cisgiordania, Israele potrebbe avere il controllo permanente di 4-5 milioni di palestinesi». Non una novità: il controllo permane dal 1967, si perfeziona negli anni con la progressiva erosione di terra palestinese, con l’inesorabile annessione strisciante della Cisgiordania. Gaza era stata lasciata in outsourcing a Hamas, nell’illusione che Hamas si accontentasse di quella striscia di potere e dei soldi del Qatar. Una volta «cancellata» Hamas, il controllo di Israele tornerà diretto. L’occupazione non avrà schermi neanche lì.

Il secondo fallimento è «in casa». È un fallimento spiegato in modo semplice, esemplare: «Un movimento di coloni e una popolazione ultraortodossa in crescita hanno inclinato la politica verso destra e polarizzato la società. La guerra ha alzato la posta in gioco e, sebbene i partiti di destra della coalizione siano esclusi dal gabinetto di guerra, hanno compromesso l’interesse nazionale di Israele usando una retorica incendiaria, fomentando la violenza dei coloni e cercando di sabotare gli aiuti e la pianificazione postbellica. L’establishment della sicurezza israeliana è capace e pragmatico, ma non è più pienamente al comando».

Il terzo fallimento è mondiale: va imputato alla «maldestra diplomazia» di Israele, di cui i finti amici sono parte integrante, se non punta di lancia. «La rabbia per la guerra era inevitabile, soprattutto nel Sud del mondo, ma Israele ha fatto un pessimo lavoro per contrastarla. Le “azioni legali”, comprese le accuse di genocidio, stanno danneggiando la sua reputazione. I giovani americani hanno meno simpatia dei loro genitori per lo Stato ebraico».

Questo «quadro desolante», però, «non sempre viene riconosciuto a Gerusalemme o a Tel Aviv». Gli israeliani e i loro finti amici si raccontano e raccontano una realtà diversa: «Netanyahu parla di invadere Rafah, l’ultima ridotta di Hamas, mentre la destra dura fantastica di ri-colonizzare Gaza. Anche molti israeliani mainstream si illudono. Credono che l’unicità delle minacce contro Israele giustifichi la sua spietatezza e che la guerra abbia contribuito a ripristinare la deterrenza. Gaza dimostra che se si uccidono degli israeliani, la distruzione è vicina. Molti non vedono alcun partner per la pace: la pace è marcia. L’occupazione è l’opzione meno peggiore, concludono». Certo, «preferirebbero essere popolari all’estero, ma la condanna e l’antisemitismo sono un piccolo prezzo da pagare per la sicurezza. Quanto all’America, si è già arrabbiata in passato. Le relazioni non stanno per rompersi. Se Donald Trump tornasse, potrebbe ancora una volta concedere a Israele un lasciapassare».

Ebbene: «Questa storia seducente è un manifesto per il disastro». Proprio perché le minacce a Israele sono costanti e consistenti, non dovrebbero mai esserci falle nel rapporto con l’America. E soprattutto, non dovrebbe essere gettata al vento la possibilità di relazioni proficue con gli Stati arabi del Golfo. E poi c’è l’economia, che «dipende dalle esportazioni di tecnologia e dagli esperti che hanno accesso ai mercati globali». L’isolamento internazionale, al contrario, può avere conseguenze devastanti: «Le aziende potrebbero essere inserite in una lista nera. I capi potrebbero trasferire le attività ad alta tecnologia all’estero o, se sono riservisti, essere arrestati lì».

Il punto è l’«occupazione permanente». Il punto trascurato, omesso, misconosciuto dai finti amici. L’enfasi sacrosanta sul massacro del 7 ottobre e sull’abominio raggiunto da Hamas viene usata per nascondere il diritto dei palestinesi, il diritto a qualche lembo di quella terra che è anche loro, qualche lembo in cui non dovrebbero più avere tra i piedi coloni aggressivi e violenti, che li vogliono cacciare. Non si vuole capire che è questo che indigna milioni di persone nel mondo e anche in Occidente, che la cosa più occidentale di tutte è difendere i diritti di tutti. Così, l’«occupazione permanente» aliena sostegno all’estero, e «invece di rendere sicuri gli israeliani, avvelena la politica, incoraggiando la destra dura e alimentando il radicalismo palestinese». Qui anche l’Economist cede a un argomento tipico dei finti amici — «Gli israeliani hanno ragione nel dire che oggi non hanno un partner per la pace» —, come se con tutti i suoi difetti orrendi, l’Autorità palestinese non avesse da trent’anni riconosciuto il diritto di Israele all’esistenza, mentre è Israele che non ha mai riconosciuto il diritto all’esistenza di una qualche Palestina, anche «mini», ma con confini definitivi, per sempre invalicabili dai coloni, che lo slogan «dal fiume al mare» non solo lo gridano ma lo mettono in pratica, e sognano di cacciare tutti gli arabi.

«L’America deve aiutare Israele a evitare questo destino», il destino di una Israele radioattiva, Stato-paria, «e se non ci riesce pagherà essa stessa un pesante prezzo diplomatico». Non può certo costringere Israele né al cessate il fuoco né ai due Stati, non può certo abbandonarla. Ma potrebbe, dovrebbe, fare altre cose, «dovrebbe distribuire unilateralmente più aiuti umanitari e rifiutare di fornire armi per un’invasione di Rafah. Dovrebbe ampliare le sanzioni contro i coloni e i fanatici di destra per dimostrare agli elettori israeliani che l’America sostiene la loro sicurezza ma non l’estremismo o l’occupazione permanente. E dovrebbe continuare a segnalare la sua volontà di riconoscere la Palestina come parte di un negoziato di pace a due Stati».

Questa guerra, è la conclusione di questo grande giornale, ha mandato in frantumi molte illusioni: «Che i palestinesi possano essere ignorati; che l’Autorità palestinese abbia voglia di riforme; che l’antisemitismo sia raro; che Israele possa circoscrivere il bla-bla sui due Stati mentre gli insediamenti si espandono; e che la destra dura possa essere domata». Però, ecco l’ottimismo della ragione: «La buona notizia è che ci sono motivi di speranza. I sondaggi suggeriscono che i centristi in Israele hanno forse il 50-60% dei voti, che istituzioni come la Corte Suprema sono ancora forti e che esistono leader migliori. Ci aspetta una lotta per il futuro di Israele. La battaglia a Gaza è solo l’inizio». Vale anche per la Palestina.




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